“Ho fatto tardi, devo correre la 3B mi aspetta alla Bollicine” “Io, invece, vado alla Spada SpA”
“Ma hai visto che nella SuperSoap la Lim non funziona?”
Non è l’incipit di un testo comico, ma è quello che accadrà nel prossimo futuro in un istituto comprensivo del viterbese, dove le aule verranno intitolate agli sponsor che ne avranno permesso la ristrutturazione.
Non è che uno dei possibili esempi di come i privati stiano entrando nelle scuole: un’operazione gestita dai vari governi che si sono succeduti alla guida del paese, che oltre agli esigui finanziamenti pubblici, come quelli del PNRR, che solo in minima parte possono essere utilizzati per la ristrutturazione, hanno aperto a sovvenzioni private, a costo, però, di una radicale e progressiva trasformazione della scuola. Il sapere non è più orizzontale e democratico, educare non significa più dare gli strumenti della conoscenza, ma l’istruzione viene intesa come primo gradino del mercato del lavoro che ha bisogno di professionisti con competenze specifiche, non certo di persone allenate a pensare. La scuola che hanno in mente ha bisogno che gli studenti siano orientati al più presto al lavoro per evitare sprechi: se lo studente farà informatica, perché perdere tempo con la storia, la geografia, la letteratura, l’arte, per non parlare del latino o di altro vecchiume che si insegna nella scuola italiana.
Le norme che regolano il rapporto tra le scuole e i finanziamenti privati di varia natura, dalle donazioni alle eredità, hanno origine nel pacchetto meglio noto come “riforma Bassanini”, che imposta e definisce l’autonomia scolastica, occupandosi anche di donazioni (defiscalizzate) e accettazioni di eredità che, da allora, non hanno avuto più bisogno di autorizzazioni preventive come previsto dalla normativa precedente.
Autonomia vuol dire bilancio: il progressivo depauperamento dei finanziamenti statali con parallelo allargamento delle maglie a favore di investimenti privati ha portato al loro intervento evidente nel sistema scolastico. Gli sponsor compaiono sui diari distribuiti dagli istituti comprensivi, sulle targhe all’interno delle scuole, ma soprattutto viene promosso un collegamento tra scuola e aziende del territorio per quanto riguarda i contenuti e la didattica. Qualche giorno fa è arrivata la ciliegina sulla torta: a Milano è stata presentata la “Fondazione per la scuola italiana” che ha l’obiettivo di trovare 50 milioni in 5 anni da investire, su indicazioni del MIM, per rendere la scuola più competitiva e adatta al mercato. Con parole auliche, come l’instaurare un rapporto “virtuoso” pubblico-privato, i promotori quali Unicredit, Leonardo ed Enel Italia, potranno richiedere la formazione del personale specializzato di cui hanno bisogno.
In questo panorama, i docenti si sentono dire che bisogna far posto, in cattedra, a chi lavora veramente: come dire che l’insegnamento non è una professione. Loro, i professori, verranno sempre più relegati al ruolo di facilitatori tra domanda (il mercato del lavoro) e l’offerta (gli alunni).
C’era una volta la scuola italiana, quella dell’operaio che voleva il figlio dottore, quella che molti paesi costruiti sulle competenze ci invidiavano perché quel preparare cittadini al mondo del lavoro li rendeva professionisti completi e, comunque, produttivi.
CUB Scuola, Università e Ricerca