Il virus nelle RSA: il diritto alla cura e la dignità del lavoro

Nelle ultime settimane il contagio è esploso anche nelle RSA (residenze sanitarie assistenziali) e case di riposo del Lazio, nonostante i numerosi appelli al rispetto delle disposizioni di sicurezza.

Dopo Nerola, dove a metà marzo era iniziato il contagio con 56 anziani positivi, nei giorni scorsi l’RSA San Raffaele di Rocca si Papa ha registrato 138 contagi, tra ospiti e operatori, e 5 deceduti, mentre nell’omologa struttura di Montecompatri una donna è deceduta e 14 sono i contagiati; stessa situazione a Villa Nina, a Frattocchie, a Villa Fulvia e nella Casa di riposo Giovanni XXIII; l’INI di Grottaferrata conta 50 contagiati, attualmente trasferiti presso altre strutture mentre al Villaggio Litta, struttura per disabili, si sono ammalati 11 ragazzi. Da ultimo, nel Centro di riabilitazione Santa Maria del Prato, nel comune di Campagnano sono infettati quasi il 50% degli utenti e degli operatori.

In tutta Italia le strutture per anziani e disabili sono il principale focolaio del virus, da febbraio si contano tra i 6000 e i 7000 decessi, tanto che l’Istituto superiore di Sanità  ha avviato un’indagine nazionale per cercare le cause di questa strage. Secondo i dati ufficiali, sono circa 250.000 gli anziani che vivono nelle circa 7000 strutture residenziali nate negli ultimi 10 anni su tutto il territorio nazionale, ma esistono, inoltre, una miriade di case di riposo, case famiglia, centri d’accoglienza, che non sono censiti. Sarà difficile quindi avere dati precisi  sulle vittime del covid 19.

Se in un primo momento si poteva attribuire la diffusione dei contagi al fatto che queste strutture fossero impreparate a gestire l’emergenza, a oltre un mese dal lockdown questa spiegazione non è più sufficiente. È evidente che ci sono delle falle nelle misure di contenimento e sono mancati i controlli: in molti casi sono mancati dispositivi di protezione idonei e sufficienti e non è stata fatta una formazione adeguata; la strutturale carenza di personale ha impedito di creare percorsi differenziati, per evitare la diffusione dell’infezione o formare squadre di lavoro fisse, per limitare i contatti; inoltre, molte strutture non hanno camere singole, quindi non è stato possibile isolare le persone malate e il virus ha potuto proliferare tra gli ospiti e gli operatori.

L’epidemia ha fatto emergere una situazione non più sostenibile: in 10 anni si è notevolmente ridotto l’intervento pubblico nel settore, che ha tagliato circa 25.000 posti letto, a favore di quello privato, che antepone il profitto all’assistenza e lucra sui bisogni di una fascia di popolazione particolarmente fragile per età e condizioni psicofisiche. Come se non bastasse, le strutture accreditate hanno un costo notevole per le casse regionali: nel Lazio il SSR sostiene la quota sanitaria al 100% per le RSA di tipo intensivo, e al 50%  per quelle di mantenimento.

Tutti i servizi, sanitari e non, vengono affidati a società cooperative che, spesso, lucrano sul costo del lavoro: infermieri, OSS, assistenti sociali, ausiliari, addetti alle pulizie e alle mense, manutentori, personale amministrativo, che lavorano con salari tra i più bassi del mercato, spesso assunti con contratti di collaborazione o temporani, quindi soggetti ad un elevato turnover, oppure part time di poche ore, che li costringono a dividersi tra più strutture, moltiplicando il rischio di contagio. Una situazione che ha impoverito e precarizzato i lavoratori e, contemporaneamente, ha limitato il diritto alla salute degli utenti.

Questo modello  si è dimostrato totalmente inadeguato e inefficiente! La gestione delle strutture residenziali per anziani e disabili  deve essere pubblica, con garanzia del posto di lavoro per gli operatori attualmente impiegati, affinché possa essere assicurata la necessaria assistenza agli utenti e condizioni di lavoro dignitose agli operatori.

La CUB continuerà, in tutta Italia, a denunciare la cattiva sanità che, a fronte di un rimborso di 160 euro al giorno, mette a rischio utenti e lavoratori.